Critica Liberale 227/2016
un gigante del liberalismo novecentesco
john maynard keynes a cura di giovanni la torre
quaderno gobettiano
di pietro polito
paolo bagnoli
con uno scritto di gobetti
italia invertebrata
di pierfranco pellizzetti
astrolabio
di giovanni perazzoli
piero lacorazza
riccardo mastrorillo
elio rindone
editoriale
giovanni vetritto, auto da fé
astrolabio
giovanni perazzoli, la crisi greca e il populismo italiano
pierola corazza, sud, regioni e referendum trivelle
riccardo mastrorillo, la legge sui partiti
elio rindone, il pd, renzi e la sindone
quaderno gobettiano
pietro polito, il fascismo è una rivoluzione?
piero gobetti, intenzioni
paolo bagnoli, il ritorno al futuro di pierogobetti
cono d’ombra
tommaso visone, il testamento del secolo ‘europeo’
italia invertebrata
pierfranco pellizzetti, mercatisti filo golfisti
pierfranco pellizzetti, liberali, liberisti, liberaloidi
pierfranco pellizzetti, i nuovi pangloss
lo spaccio delle idee
lauro rossi, la storiografia militante di aldogarosci
paolo fai, il precipizio dell’editoria unica
giovanni la torre, keynes perse la battaglia
spilli
la lepre marzolina, spilli
giovanni vetritto
auto da fé
Io sono un borghese.
Sono un rottame di un mondo che non c’è più, un rottame che galleggia sulla plastica liquida della modernità.
Senza direzione, senza appartenenza, senza orizzonti di senso in un mondo che non capisce, non apprezza e non rispetta. Perché non è il suo e non ci trova più le pietre angolari su cui ha costruito la sua identità e i suoi valori.
Certo, su cosa sia la borghesia occorre intendersi.
Ma è normale, in questa notte grigia, in cui tutti i gatti hanno lo stesso colore, siamo ormai abituati a dover ridare il senso alle parole, perché sono state tutte traviate, mescolate, abusate per indicare tutto e il contrario di tutto.
E quindi occorre capirsi.
La mia borghesia non è la classe del dominio di Marx. E non è nemmeno la classe affluente del rampantismo consumista contemporaneo. Non si definisce per censo, ma per abitudini, comportamenti, valori. Non si aspetta salvezza né in un qualche senso recondito della storia; né in un qualche Dio che ci abbia spedito in una valle di lacrime per poi consolarci dopo la morte in un Paradiso ultraterreno; né in un qualche meccanismo spontaneo di scambio di utilità che, se solo non lo disturbassero i Governi, assicurerebbe successo e felicità a tutti.
La mia borghesia è il ceto della responsabilità e dell’intraprendenza dell’uomo che nulla di tutto questo si aspetta.
La mia borghesia è il ceto intraprendente e modernizzatore del borgo. È il ceto che lascia e destabilizza gli equilibri della società immota dell’età di mezzo, per costruire nella città nuovi orizzonti di autorealizzazione e di libertà. Plasmando il Mondo Nuovo.
È la classe media del benessere ma anche dei princìpi. Della fatica quotidiana del lavoro, non della fruizione leggera della rendita. La classe che dà senso alla sua vita con il duro sforzo di costruzione della propria fortuna, che non è solo né necessariamente impresa; con l’impegno quotidiano per la realizzazione del proprio progetto di vita.
È la classe del benessere, dicevo. È la classe che può permettersi il superfluo, e ne gode. Case calde e ben arredate, buon cibo, vestiti di buon taglio, tempo libero e consumi culturali elevati.
Ma l’amore per la casa non diventa mai sfoggio inutile di spazi o cose. Il gusto per la tavola non diventa mai crapula. L’attenzione all’abito non diventa mai vanteria insulsa. Il consumo non è mai fine a se stesso e non va mai oltre la lunghezza della gamba. Questa borghesia gode del materiale e del superfluo ma non ne diviene mai schiava.
La borghesia, la mia borghesia, è parsimonia, senso del limite. Misura.
Ed è studio. Soprattutto studio. L’oggetto che definisce questa borghesia è il libro.
È una cultura, un gusto per l’esplorazione dell’insondabile, la sfida della vita come ricerca. E quindi sapere, stimolo all’intelletto: musica, teatro, cinema, romanzi, poesia. E saggistica, per comprendere il mondo e l’attualità.
Perché questa borghesia, gelosa del suo privato, dei suoi spazi, chiusa ostinatamente a una idea di mondo in cui tutto sia massificato e collettivo, è poi attenta alla realtà, istintivamente politica, desiderosa di capire il presente perché convinta di poterlo (almeno in parte, per approssimazioni successive e senza sogni palingenetici) plasmare.
È socialmente responsabile questa borghesia. Individualista e benestante, ma non sorda.
Sa di essere classe privilegiata, e crede fermamente di dover restituire almeno in parte ciò che la lotteria delle nascite le ha donato. Mecenatismo, solidarietà, filantropia. È disponibilità a pagare in proprio. C’è una terribile e splendida lettera dal carcere fascista di Ernesto Rossi alla madre, nella quale Esto scrive di sentire come un suo preciso dovere quello di stare in prigione, in quanto membro della classe che ha avuto l’infanzia più ricca e felice, che ha potuto studiare e capire, che ha avuto modo di prepararsi ad essere classe dirigente, e davanti al dispotismo ha il dovere morale di opporsi, anche essa sola, e di pagare il prezzo di persona.
Non è solo e necessariamente classe di commerci e impresa, o di libere professioni, questa borghesia. È anche ceto intellettuale, è fatta di maestri elementari, professori medi e universitari, alta burocrazia capace di prendersi la responsabilità di dare voce e gambe alle istituzioni. Oggi potrebbe essere anche nuove professioni della tecnologia e dell’innovazione, che ci danno nuova occasione di discontinuità e di destabilizzazione di equilibri stantii. Se solo.
È ceto di tecnostruttura, che fornisce quadri alla politica, all’amministrazione pubblica, all’alta dirigenza di impresa, alle organizzazioni della società civile.
È ceto privilegiato che sa assumersi la responsabilità di essere classe dirigente, non oligarchia di dominio.
Questa è la mia borghesia.
È la classe della libertà intesa non come tutela dei vantaggi dell’esistente, ma come nobiltà di risultato, classe aperta per definizione, pronta a rischiare la propria posizione perché ciascuno che sappia sfruttare le proprie chance di vita possa subentrarvi. È la classe che ha orrore degli status, formali o socialmente determinati, che vuole occasioni per ciascuno, e crede fermamente in un sistema che garantisca, come voleva Luigi Einaudi, l’eguaglianza dei punti di partenza. Che crede nel movimento incessante della modernizzazione. Che tra essere e divenire, tra Parmenide ed Eraclito, non ha un istante di dubbio: sempre col progresso, con la modernità, con le trasformazioni, per il mutamento.
Ha tante radicate convinzioni, questa classe. Alcune assolutamente irrazionali: la fiducia nell’individuo, nell’uomo, per esempio, a dispetto delle mille evidenze della realtà che invogliano al contrario.
E di qui il rifiuto di elevare queste convinzioni a norma, il rifiuto di valori imposti, l’amore per una società aperta, di leale e vivace conflitto di idee e visioni del mondo. Tutt’altro di quel perbenismo che chissà chi, un giorno, sbagliando tutto, ha voluto iniziare a definire, contro ogni evidenza, “borghese” in senso dispregiativo. Se c’è un ceto che per primo ha superato il perbenismo per non riconciliarvisi più, è la borghesia, la mia borghesia.
È laico per definizione questo ceto. Incarna la laicità, le dà gambe e ne fa motore di vita e regola prima della convivenza civile e dell’etica individuale. Può anche avere uno spirito religioso, ma nell’agorà sta salda sui princìpi della legge positiva, della tutela dell’autonomia dell’individuo.
Perché valori ed etica ne ha da vendere questa classe.
Ma non sono i dogmi delle Chiese, né la superstizione delle plebi, né l’utilità gretta dei mercanti.
Sono i valori antichi e futuribili della libertà e della laicità.
Quelli coltivati dagli antichi sapienti, elevati a sistema e legge di vita dallo stoicismo, nelle sue diverse fasi, oscurati nel lungo medioevo e riesplosi col rinascimento e l’umanesimo. Impostisi con la loro carica innovativa con le rivoluzioni liberali. Poi di nuovo offuscati dalla “ribellione delle masse” novecentesca. E pronti a dare per il domani una regola che invece invano cerchiamo oggi in quegli stessi dogmi, in quelle stesse superstizioni, in quello stesso cinico utilitarismo di cui essa si è liberata da sempre. Mentre la modernità richiede spirito di intraprendenza, senso critico, avventura intellettuale, rifiuto degli status, individualismo ma non egoismo, civismo ma non comunitarismo, cosmopolitismo. I valori e gli abiti mentali dell’uomo del borgo.
È mai esistita questa borghesia? Esiste ancora?
Questo è esattamente il punto.
Nella mia generazione, quella dei ragazzi cresciuti in un tempo in cui si raccontava una idea gretta di libertà e di borghesia, che non andava oltre il cinismo conservatore di Reagan e Thatcher, certamente non c’è più.
Guardo i miei coetanei. Professionisti anche tecnicamente preparati, che non leggono un libro che sia uno, che non hanno una preoccupazione civica che sia una, che non hanno una abitudine altruistica che sia una, che non si pongono un dilemma collettivo che sia uno, che non si danno una regola civile che sia una. Schiavi delle cose che quella borghesia invece usava, quasi ormai inconsapevoli del loro valore eppure dipendenti da esse. Intraprendenti senza essere imprenditoriali, plebei senza essere popolari, benestanti senza essere borghesi. Non nel mio senso.
Ne ascolto il lessico greve. Ne verifico l’inconsistenza culturale. Ne sopporto i consumi ostentati. Ne vedo il cinismo appropriativo. Ne tocco il vuoto di civismo. Sono la prima generazione che ha rotto davvero con quella borghesia, perfino di più rispetto alla generazione del ’68 che ne aveva fatto il suo nemico dichiarato. Perché ne scimmiottano modi e forme senza sapere nemmeno quanta profondità ci fosse dietro.
Se sia esistita o meno prima di questa generazione, quella borghesia, però lo so bene.
È esistita. Non è mai stata sterminata, dentro un generico ceto di abbienti molto più largo di essa non è nemmeno mai riuscita ad essere davvero maggioranza (e figuriamoci rispetto al complesso di una società di clerici, plebei, cortigiani, arricchiti, oligarchi, famigli). Ma è esistita. Ancora resiste, nei pochi che non ne abbandonano valori, abitudini, vezzi, modi.
Io li ho conosciuti, i borghesi. Quei borghesi.
Ho fatto in tempo a frequentarne i salotti, ad ascoltarne storie oggi impossibili di disinteresse e spirito di servizio, a godere della loro intelligenza e cultura, ad assorbirne convinzioni, metodo, storia.
Era la classe della libertà, quella borghesia.
Nessuna sorpresa che in un mondo in cui quella borghesia non c’è più non possa esserci liberalismo, né, più genericamente, liberalesimo (come lo chiama Piero Bellini, uno di loro, e non certo il meno brillante), umanesimo laico e riformatore e problemista e tollerante.
Nessuna sorpresa che una forza laica, per lo spessore culturale che l’aggettivo ha significato in un secolo e più di storia patria, non sia più esistente e nemmeno più concepibile. Perché manca la base di un ceto di riferimento attorno a cui organizzare altri individui che per istinto, sensibilità personale, interessi e idealità vi si aggreghino.
Perché la politica è questo, difesa di idealità e interessi, non ordinaria amministrazione. Idealità e interessi che fanno necessariamente riferimento, nei grandi numeri, a ceti. E il ceto borghese della libertà non c’è più.
Per questo io mi sento un relitto che galleggia in un mare che non odora di buono.
Perché sento la responsabilità, l’urgenza di difendere la storia e l’attualità di un abito mentale e sociale, di riproporne la bruciante attualità, di testimoniarla con le parole, gli scritti, e, per il poco in cui ci riesco, nei comportamenti. Ma in una disperante solitudine, in cui non trovo addentellati, sopraffatto da una realtà in cui non uno dei valori, non una delle abitudini, non una delle convinzioni, non una delle cose buone di cui ci si nutriva esiste più per come era. In cui nemmeno le parole, le parole di quella borghesia, sono più rispettatee usate per ciò che hanno sempre significato.
In una realtà in cui la politica, i comportamenti sociali, i valori, le credenze, le opinioni diffuse non solo non sono più quelli della mia borghesia (il che è ovviamente più che legittimo); ma in cui nemmeno l’orizzonte di senso, le coordinate generali di riferimento, le parole (sante parole) hanno più nulla a che vedere con quel mondo.
Fino a renderne del tutto impossibile la sopravvivenza.
A mia figlia giovinetta ho difficoltà anche a spiegare di che parlo. A dirle chi sono. Perché tutti quei libri. Perché le notti a studiare. Perché certi giansenismi autoimposti. Perché, poi, tutto al contrario, certi immoralismi libertini rivendicati. Perché l’insofferenza per quel che mi gira intorno. Perché la commozione davanti a una rivista di un secolo fa.
Ho difficoltà insormontabili. Perché qualunque parola usi ha ormai un senso deformato e deteriore, alcune hanno preso ormai un significato perfino opposto.
Perché lei cresce in una realtà che non le offre ormai più nemmeno l’opportunità di chiedersi se un altro comportamento sia possibile, se certe cose siano buone o cattive, se possa interessarle o meno continuare a coltivare un decimo, un centesimo, un millesimo del giardino interiore e di presenza sociale e di cultura politica che suo padre ha difeso e continua difendere con ostinazione, senza riuscire più nemmeno a farglielo intravedere.
Scompaiono, come mio nonno, come mia madre già tanti anni fa, uno per volta, quei borghesi.
Ne vedo ancora alcuni, resto attaccato a loro come a una setta di iniziati.
Conformo sempre più, per quel che posso, comportamenti e reazioni delle mie giornate ai loro.
Cerco occasioni di incontro che vivo con l’attenzione con cui si vivono cerimonie emozionanti.
Provo a tenere accesa la fiammella di una appartenenza che è società, civiltà, civismo, cultura, politica. Soprattutto politica, discorso sulla pòlis, sul borgo.
Ma se non potrò affidare quella fiammella ai miei figli a che sarà servito?
La guerra è già persa, e non da ora. E io sono un soldato rimasto a guardia di un ridotto già espugnato.